Roma, 1 settembre 2020
di Luciano Vanni
Con l’idea di confine ci siamo misurati fin da piccoli. Attraverso i confini abbiamo costruito la nostra prima relazione con i genitori e con l’ambiente domestico, con i giochi e con i libri, con le linee dei quaderni su cui scrivere le prime parole e con i disegni da colorare. Ogni nostra azione aveva un suo confine, fisico e mentale: dalla porta di casa, di cui era vietato il superamento, alla paura del buio, che ci auto-impediva l’attraversamento di ambienti pieni di mostri selvaggi. Il confine è stato il nostro primo strumento pedagogico, perché delimitava l’estensione delle nostre azioni e perché determinava le nostre prime regole di vita. Ma nonostante le nostre paure e la disciplina impartita dai familiari, siamo entrati nell’età dell’adolescenza attraverso il superamento di quei confini precedentemente rispettati: siamo usciti di casa da soli, abbiamo dormito senza i nostri genitori e abbiamo imparato l’esperienza di spingersi sempre oltre, rendendo possibile l’impossibile. Da allora, ogni confine, ci poneva una domanda: rispettarlo o superarlo? E poi abbiamo iniziato a osservare la cronaca e la storia, e i confini sono diventati racconti costruiti attorno a barriere di divisione dove si è combattuto e si è morti con una bandiera sulle spalle; linee non più immaginarie, ma di pietra e filo spinato, che hanno separato persone, lingue, monete, popoli e religioni, generando lacrime, marginalità, violenza e razzismo, culti e fanatismo.
Fortunatamente la cultura, la musica e l’arte – quali espressioni della bellezza, della grazia, delle virtù e della creatività umana – ci hanno sempre offerto, per loro natura, una rappresentazione positiva della parola confine, secondo l’accezione latina di cum-finis: ciò che al tempo stesso separa e unisce, che ha una fine e un nuovo inizio, che ha un prima e un dopo; perché la storia delle espressioni artistiche ci racconta che il confine tra gli stili può rappresentare una preziosa opportunità di dialogo e di cambiamento, un ponte tra differenze (e non una barriera) e un processo di superamento (più che un limite). Tra le forme d’arte che più evocano una irresistibile spinta al superamento dei confini – geografici, culturali e stilistici – c’è il jazz, una musica che nelle sue ampie articolazioni riflette, fin dalle sue origini, l’idea del dialogo tra la diversità e la piena affermazione della libertà d’azione attraverso il processo creativo dell’interplay e l’affrancamento dal testo scritto nello spartito. Ma anche il jazz può trasformarsi in un confine, fisico e mentale: lo è nelle parole di chi interpreta questa musica come una forma d’arte fatta di regole e codici; lo è in chi identifica il jazz come un ‘progetto’ e come figlio esclusivo di bandi, concorsi, conservatori e accademie; lo è in chi non dialoga più con il presente storico, rifiutando l’ascolto del nuovo, ritenendolo ‘ideologicamente’ poco interessante; lo è in chi pensa al jazz come uno ‘stile di vita’, che poi diventa marketing.
Il jazz sta vivendo una stagione di grande fascino, che ha a che fare con la parola confine: o prosegue nella sua separazione dal presente, confinandosi al ruolo subalterno di musica ‘assistita’ e a debito dei contribuenti, quindi museale e a rischio di estinzione; oppure riscopre l’istinto, il piacere e il desiderio del dialogo con i più giovani, ritrovando un po’ di sano sense of humour e rinnovando le proprie abitudini adottando nuovi suoni, nuove forme, nuovi luoghi, nuove pratiche e nuove forme comunicative. Quando Miles Davis, nella seconda metà degli anni Sessanta, si tolse i panni eleganti a favore di un mutamento nell’immagine hippie più al passo con i tempi, ci offriva consigli per affrontare il futuro: alzare le antenne dritte al cielo, e cambiare, per rendere possibile l’impossibile. E la sfida impossibile dei nostri giorni è di tornare ad affascinare il pubblico delle nuove generazioni. Oltre il confine.